Le recenti vicissitudini consumatesi durante la formazione del nuovo governo tra Lega e M5S e un Capo di Stato deciso a far valere appieno i poteri attribuitigli dalla Costituzione hanno riesumato il tema attuale e controverso della trasformazione in senso presidenziale della Repubblica.
Oggi più che mai e alla luce delle complessità e delle contraddizioni generate da fenomeni globali e dal processo incrementale di integrazione europea non è più consentito procrastinare quelle riforme costituzionali che permettano all’Italia di uscire da un’instabilità cronica e di governare il cambiamento per vincere la sfida globale.
A guardare alla sola Europa tuttavia sembra che l’instabilità non sia solo un’anomalia italiana ma rientri in un fenomeno generale di scollamento e disaffezione verso la democrazia. In questo esistono delle sfumature da non sottovalutare. Soffrono di più le democrazie parlamentari come Spagna e Germania letteralmente bloccate dall’insorgenza dei populismi ed incapaci di assimilarli nel sistema. Viceversa sono più stabili quelle democrazie nelle quali si elegge il Capo di Stato che seppur limitato nei poteri come Austria Finlandia e Portogallo ha un ruolo di equilibrio e di composizione. Sembra però che con tutti i limiti la miglior risposta sia offerta dal regime semi-presidenziale della Quinta Repubblica francese dove il Capo di Stato è eletto ma detiene anche il potere esecutivo e dove il peculiare meccanismo del doppio turno ricompone la polarizzazione del primo turno.
In Italia chi tocca la Costituzione muore. Politicamente parlando. Accade a tutti, Destra o Sinistra. Succede perché si sfibrano le maggioranze spesso raccolte per opportunismo intorno al progetto ma pronte a disconoscerlo subito al primo mutare degli umori elettorali o perché si è diffusa una pervicace impressione che la Carta sia la più bella del mondo e che non serva in alcun modo riformarla ma solo farla funzionare bene oppure perché gli avversari ricorrono alla risibile sì ma sempre valevole accusa di voler accentrare tutto il potere su di sé, di essere un Mussolini in pectore. Destino crudele quello dei riformatori.
Ad eccezione della riforma del Titolo V del 2001, le altre proposte di riforma sono naufragate. Per questo più che una storia di riforme quella italiana è una storia di riforme mancate abortite o bocciate dal corpo elettorale. Tre bicamerali e tre fallimenti. Nel frattempo si è passati dalla Prima alla Seconda Repubblica da una democrazia bloccata ad un bipolarismo intervallato da governi tecnici e mai del tutto maturo, già in declino nel 2013 e finito ufficialmente il 4 marzo del 2018.
Ultima in ordine di tempo la riforma Boschi che seppur per vie traverse o in filigrana e senza lambire la forma di governo, avrebbe potuto condurre nella pratica secondo alcuni a corroborare il ruolo del premier. Bisogna tener presente tuttavia che nel combinato disposto con la legge elettorale Italicum avrebbe creato una maggioranza sostanzialmente artificiale con tutti i problemi di rappresentatività che ciò avrebbe comportato.
Il presidenzialismo facilita l’emersione dell’uomo forte: questa è una critica ricorrente ma corrisponde al vero? La storia del Novecento sembra dimostrare l’esatto contrario. A detta di Piero Calamandrei, antifascista, le pulsioni autoritarie derivano da una debolezza intrinseca del sistema politico, incapace di produrre decisioni e di assorbire le istanze che provengono dal corpo elettorale. Le fragili istituzioni liberali del Regno d’Italia, poco legittimate, colte alla sprovvista dal dramma dei reduci e da una società divenuta oramai di massa e la Repubblica di Weimar tanto democratica sulla carta ma tanto instabile furono facili prede di personalità forti e carismatiche capaci di far leva sulle frustrazioni dei ceti medi.
Poteri forti ma bilanciati per Calamandrei che al momento del dibattito all’Assemblea Costituente (1946) sostenne un presidenzialismo improntato al modello americano: presidente eletto direttamente dal popolo, salde autonomie locali, indipendenza della magistratura con ruolo di controllo di costituzionalità sulle leggi. L’esito delle votazioni tuttavia premiò l’ordine del giorno a favore del parlamentarismo.
“Oggi abbiamo bisogno di una democrazia governante” parole profetiche quelle indirizzate dal Presidente della Repubblica Cossiga alle Camere nel 1991 in un messaggio che fece non poco scalpore.
Dense di significato perché pronunciate all’indomani dei referendum che avrebbero smantellato pezzo per pezzo i pilastri sui quali si era sorretta per mezzo secolo la Prima Repubblica e prima dei torbidi di Tangentopoli nei quali annegheranno ideologie, simboli e un’intera classe dirigente che non aveva compreso quanto fosse cambiato il mondo dal fatidico ’89. Per alcuni dar seguito alle idee del Picconatore avrebbe scongiurato la fine di quel sistema politico, per altri questa era inevitabile perché cambiamenti tanto epocali come il crollo del comunismo avrebbero avuto ricadute ovunque volenti o nolenti. Al di là dei giudizi storici su chi le ha pronunciate, non vi è dubbio che oggi come allora suonino come un monito e come uno stimolo.
Fino ad oggi non è mai stato agevole raggiungere convergenze programmatiche tra forze politiche differenti e molto spesso separate da profonde divisioni. Nemmeno in nome di un fine comune: un governo che governi. Ove si fossero aggregate larghe maggioranze intorno a progetti di revisione, per citare un caso quella tra Forza Italia e PD nella precedente legislatura, queste si sono sgranate fino a frantumarsi trasformando le riforme di tutti nelle riforme di qualcuno e l’esito di riforme partigiane altro non è che il fallimento.
La condivisione più ampia possibile resta il prerequisito essenziale per avviare un percorso di riforma che non voglia interrompersi al primo incaglio. Il Centrodestra già nel 2006 aveva provato senza successo a trasformare la forma di governo del Paese bilanciando il ruolo del premier con maggiori poteri alle autonomie locali. Pure lo stesso PD del corso renziano sembra disponibile a partecipare a delle riforme che vedano un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo. Se si escludono i corpuscoli della Sinistra tradizionale che sembrano trovare nella conservazione ostinata del Testo la loro ragione di vita, resterebbe da sondare unicamente la disponibilità del M5S. Essendo da sempre critico verso le istituzioni lontane dai cittadini e promotore della democrazia diretta potrebbe opporsi ad una riforma che vuole trasformare una democrazia bloccata, ostaggio della partitocrazia in una democrazia che decide secondo il mandato dei cittadini? Senza non si raggiungerebbero i 2/3 necessari ad avviare il complesso procedimento di revisione della Carta come prescritto dal dettato dell’art. 138 e senza non sarebbe nemmeno ipotizzabile l’approvazione.
Sia ben chiaro. Per condivisione si intende la comunione degli onori e degli oneri: qui sarà la vera prova di maturità. Dei partiti e degli elettori.
Articolo pubblicato sul trimestrale di Nazione Futura
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